Parti, l’azienda ospedaliera di Perugia prima per numero di nascite

PERUGIA – L’Azienda ospedaliera di Perugia è al primo posto in Umbria per volume di parti. Lo certifica il portale https://www.doveecomemicuro.it/, che pubblica i dati aggiornati del Programma Nazionale Esiti 2017 e la classifica degli ospedali italiani che eseguono il volume maggiore di parti in un anno. Le strutture al top in Umbria sono l’Azienda Ospedaliera di Perugia, l’Azienda Ospedaliera Santa Maria di Terni e l’Ospedale San Giovanni Battista Foligno

La scelta dell’ospedale in cui far nascere il proprio bambino è un argomento che sta molto a cuore alle donne. Se, da un lato, il loro primo desiderio è che il bebè nasca sano, dall’altra tutte vorrebbero anche vivere il travaglio e il parto in maniera positiva, sentirsi ascoltate dal personale ospedaliero e rassicurate che tutto si stia svolgendo per il meglio. Ognuna ha delle aspettative precise: c’è chi vorrebbe poter contare con certezza sull’analgesia epidurale e chi spera di poter fare il travaglio in acqua. Nel soddisfacimento delle richieste, molto dipende dall’andamento della gravidanza e dalle concrete possibilità della struttura che deve, prima di tutto, garantire un parto in sicurezza. Orientarsi verso un ospedale piuttosto che un altro, in base alle proprie condizioni di salute e alle personali priorità, può però fare la differenza.

“Le autorità ministeriali hanno stabilito alcuni punti fermi che consentano di valutare la bontà di una struttura. In base all’Accordo Stato Regioni del 2010, i punti nascita devono eseguire almeno 1000 parti annui. I volumi di attività possono avere, infatti, un rilevante impatto sull’efficacia degli interventi e sull’esito delle cure, come dimostrato dalle evidenze scientifiche”, spiega Elena Azzolini, medico specialista in Sanità Pubblica e membro del comitato scientifico di https://www.doveecomemicuro.it/“Altro elemento importante è la giusta proporzione di tagli cesarei, indice di adeguatezza delle cure. Il parto cesareo rispetto a quello naturale comporta maggiori rischi per la donna e per il bambino e dovrebbe essere effettuato solo in presenza di indicazioni specifiche. I valori massimi fissati dal Ministero della Salute, al riguardo, sono: 25%, per i punti nascita che effettuano più di 1000 parti all’anno, e 15% per quelli che ne eseguono meno di 1000”.

La fotografia della realtà nazionale – Quanti sono gli ospedali che rispettano le soglie stabilite dalle autorità ministeriali? In base al PNE 2017 (Programma Nazionale Esiti gestito dall’Agenas per conto del Ministero della Salute), delle 461 strutture che eseguono parti, solo il 38% effettua almeno i 1000 parti annui richiesti: il 43% si trova al nord, il 22% al centro e il 34% al sud. Di quelli che raggiungono la quota minima stabilita, poi, solamente il 58% rispetta anche il valore di riferimento per quanto concerne la percentuale di tagli cesarei (che dev’essere inferiore-uguale al 25%): il 63% si trova al nord, il 19% al centro e il 18% al sud.

Tagli cesarei: interventi inutili in calo – Quanto alla quota annuale di cesarei, l’Italia è tra i Paesi europei che ne eseguono di più. Negli ultimi anni, però, la situazione è migliorata: i tagli cesarei primari sono passati dal 29% del 2010 al 24,5% del 2016, il che si traduce in 58.500 donne a cui è stato evitato l’intervento.

D’altra parte, resta un notevole divario tra Nord e Sud, con le regioni meridionali che faticano maggiormente a rispettare i valori soglia fissati dalle autorità ministeriali. A fronte del dato medio nazionale del 24,5% si osserva, inoltre, una notevole variabilità intra e interregionale, con valori per struttura che vanno da un minimo del 6% a un massimo del 92%.

Punti nascita sotto i 500 parti annui: sono ancora troppi – Altro tasto dolente riguarda il numero di punti nascita che eseguono meno di 500 parti all’anno e che, in base all’accordo Stato-Regioni del 2010, dovrebbero essere già chiusi. Sebbene siano calati di numero (passando da 155 nel 2010 a 97 del 2016) sono ancora il 21% del totale (dal conteggio sono state escluse le strutture che effettuano meno di 10 parti annui): il 37% si trova al nord, il 20% al centro e il 43% al sud.

Queste strutture eseguono appena il 5,7% dei parti e, in proporzione, effettuano un numero di tagli cesarei più elevato rispetto ai grandi centri: solo il 7%, infatti, rispetta il valore di riferimento per quanto concerne le percentuali di interventi (che dovrebbe mantenersi inferiore-uguale al 15%): l’86% si trova al nord, il 14% al centro e lo 0% al sud.

“La valutazione rischi-benefici, in situazioni svantaggiate come queste, può giustificare un maggior numero di cesarei. Detto questo, l’ideale sarebbe accorpare i punti nascita che eseguono meno di 500 parti all’anno, offrendo servizi più ampi e maggiori garanzie alle donne che devono partorire”, dice Luigi Frigerio, Primario di Ostetricia e ginecologia e Direttore del Dipartimento materno infantile pediatrico dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, struttura che oltre a eseguire un alto numero di parti annui vanta anche una bassa percentuale di tagli cesarei. “Certamente vanno considerate alcune lodevoli eccezioni rappresentate da alcuni ospedali situati nelle valli o in montagna, con i quali la politica sanitaria deve inevitabilmente fare i conti”.

Come orientarsi nella scelta dell’ospedale? –  “Se la gravidanza è fisiologica, ci si può affidare anche a strutture periferiche. Quando, però, emergono elementi di patologia a carico della donna o del nascituro è importante puntare su centri di secondo livello che dispongono di tutte le strumentazioni necessarie per fronteggiare le emergenze”, spiega Luigi Frigerio.

Altri elementi importanti da valutare al momento di decidere (oltre al numero minimo di parti eseguiti in un anno e alla giusta proporzione di cesarei) sono: la disponibilità dell’analgesia epidurale 24 h su 24 7 giorni su 7, della Terapia Intensiva Neonatale, del servizio di rooming-in (cioè la possibilità di tenere il neonato in camera con sé 24 ore su 24) o della vasca per il parto in acqua. Inoltre, la possibilità di richiedere la raccolta del sangue del cordone ombelicale o, ancora, la presenza dei Bollini Rosa di O.N.Da (da 1 a 3), che segnalano l’attenzione per le esigenze femminili.

Tutte queste informazioni sono presenti nel portale https://www.doveecomemicuro.it/. Per confrontare le strutture e assicurarsi la disponibilità di uno di questi servizi è sufficiente inserire nel “cerca” la parola chiave desiderata, ad esempio “parto” “epidurale”, e selezionare la voce che interessa tra quelle suggerite: in cima alla pagina dei risultati compariranno i centri ordinati per numero di casi trattati, per vicinanza o in base ad altri criteri selezionabili.

Il semaforo verde indica il rispetto della soglia ministeriale mentre una barra di scorrimento mostra il posizionamento delle singole strutture nel panorama nazionale.

La valutazione viene fatta considerando indicatori istituzionali di qualità come, appunto, i volumi di attività e il rispetto della giusta proporzione di parti cesarei (dati validati e diffusi dal PNE – Programma Nazionale Esiti gestito dall’Agenas per conto del Ministero della Salute).

CLASSIFICA REGIONALE STILATA 

PER VOLUME DI PARTI

(Fonte: PNE 2017)

Le strutture pubbliche o private accreditate che nella Regione effettuano parti sono 8. Il 38% rispetta il valore di riferimento fissato a 1000 parti mentre il 38% non rispetta il valore minimo di 500 parti l’anno.

 

Le strutture che in Umbria effettuano un maggior numero di parti sono:

  1. Azienda Ospedaliera di Perugia (n° parti: 1985)
  2. Azienda Ospedaliera Santa Maria di Terni (n° parti: 1312)
  3. Ospedale San Giovanni Battista Foligno (n° parti: 1149)

 

Le prime due strutture, oltre a raggiungere performance molto alte per quanto riguarda il numero di parti (che deve mantenersi maggiore-uguale a 1000), rispettano i valori di riferimento anche per quanto concerne le percentuali di tagli cesarei (che devono mantenersi inferiori-uguali al 25%). (Percentuali che si riferiscono ai dati del PNE aggiustati*).

*Dati del PNE aggiustati: nei rapporti del PNE viene effettuato un aggiustamento degli indicatori attraverso l’utilizzo di metodi di risk adjustment, che permettono di studiare le differenze tra strutture e/o aree territoriali (espresse in termini di Rischio Relativo) “al netto” del possibile effetto confondente della disomogenea distribuzione delle caratteristiche dei pazienti. Si tiene conto, cioè, delle possibili disomogeneità esistenti nelle popolazioni studiate, dovute a caratteristiche quali età, genere, gravità della patologia in studio, presenza di comorbidità croniche, ecc., fattori che possono agire come confondenti dell’associazione tra esito ed esposizione.

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