Dis…corsivo. Senza famiglia?
NOSTRADAMUS di Maurizio Terzetti / La vicenda di Monsignor Krzysztof Charamsa mi ha lasciato l’amaro in bocca che si dovrebbe provare in ogni famiglia quando un suo figlio rivela ai familiari una verità a lungo repressa (e per “figlio” intendo l’equivalente di “componente”, potendosi sempre pensare che l’istituzione familiare, dal punto di vista privato e da quello pubblico, è essa il genitore unico e superiore di coloro che la fanno nascere: un padre e una madre, un figlio e una figlia).
In questo caso, un figlio ha palesato la sua omosessualità, compiendo indubbiamente un atto di liberazione lacerante e doloroso, che merita la massima comprensione da parte della famiglia. In questo caso, la famiglia è la Chiesa e in suo nome parlano i padri e le madri, i figli e le figlie che ne fanno parte in tutto il mondo.
Cosa succede, in una famiglia di tutti i giorni, particolare e normalissima, quando un suo “figlio” si dichiara gay? Gli altri “figli”, compresi i genitori, in genere si trovano spiazzati, anche se si fanno tornare alla mente molti piccoli fatti che avevano fatto nascere qualche perplessità in materia di comportamenti sessuali. Gli altri “figli”, in ogni caso, sono le persone della famiglia a trovarsi, adesso, in maggiore difficoltà rispetto al “figlio” che si è dichiarato: lui si è tolto un bel peso dallo stomaco appoggiandosi, una volta tanto ma certo non una volta qualunque, sulle spalle degli altri “figli”, genitori compresi; questi, invece, sentono adesso il peso gravare fisicamente sulle loro spalle altrettanto quanto lo avvertono agire spiritualmente nelle loro coscienze.
E come reagisce la famiglia di tutti i giorni? Durezza, rimprovero, senso di colpa, volontà di punire, idee di ravvedimento, tentativi di recupero: si apre una gamma vastissima di reazioni che, infine, portano anche al colloquio col “figlio” che si è rivelato omosessuale e, su questa strada, in genere, si finisce per ricomporre, da parte della famiglia, la lacerazione che s’è aperta.
Perché non dovrebbe succedere la stessa cosa in quella famiglia, né particolare né transeunte, ma universale e sempiterna, che è la Chiesa? Monsignor Charamsa ha compiuto la sua rivelazione, lo possiamo immaginare frastornato e tremante, ma forte per essersi cominciato a liberare del peso. La Chiesa, inevitabilmente, subisce il contraccolpo, sente piegarsi le ginocchia, avverte un dolore inesplicabile e ingiustificato nella sua struttura fisica, nella gerarchia, e nella sua complessità morale, nella coscienza dei singoli.
E, anche qui, comincia la varietà di reazioni che accadono in una normalissima famiglia: abbiamo visto durezza, rimprovero, volontà di punire. A quando il “colloquio” tra un figlio omosessuale e la madre Chiesa che non sappia di moralismo e di distanza di posizioni, che non sia minimamente contaminato dal sospetto che, dietro la vicenda, si nascondono interessi, quelli davvero non confessati, sia dall’una che dall’altra parte, da parte del prete teologo e da parte della gerarchia cattolica?
Nessuno di noi sa che tipo di colloquio c’è mai stato, da quando Monsignor Charamsa ha cominciato a sentire il suo “problema” ad oggi che lo ha svelato, quali segni ha manifestato e con quali intenzioni egli ha cercato di farsi capire, quanto chi lo ascoltava aveva compreso e poteva fare di più per dare una mano a questo “figlio”. In ogni caso, è tempo di riparare, da una parte e dall’altra, cioè di parlare finalmente, come in privato, anche se tutto il discorso è amplificato dalla forza dei megafoni multimediali, inseritisi nella vicenda o, chissà, da essa in qualche modo favoriti. Non ha, la Chiesa, quello stupendo strumento di dialogo che è la confessione? Non è il caso di fermarsi, semplicemente, su quel “confiteor”, per toglierci di dosso la pesante sensazione che il dramma di Monsignor Charamsa si è consumato, come un peccato, fuori della sempiterna, universale e clemente famiglia della Chiesa?