ASTE&RISCHI NONNO LIBERO, SETTE A ZERO, STRICLY CONFIDENTIAL
NOSTRADAMUS di Maurizio Terzetti / Per la decima edizione di “Un medico in famiglia” pare che dovremo aspettare l’inizio del 2016, dopo il Festival di Sanremo di quell’anno, poiché le riprese della nuova serie dovrebbero cominciare a giugno del 2015. Libero Martini, il “nonno d’Italia” interpretato da Lino Banfi, dovrà sperare in un’accelerazione dei tempi della lavorazione della fiction, perché da qualche giorno è comparso un temibile concorrente, uno in grado di soffiargli il titolo di “nonno d’Italia”. Silvio Berlusconi, infatti, ha deciso, da qualche giorno, di vestire i panni dell’uomo di una certa età, bonario e saggio, indulgente e pacato, tenero e gradevole come il Banfi tanto amato dalle famiglie di mezza Italia.
Questa maschera non gli si addice, ma lui prova ugualmente a cucirsela addosso: se ha funzionato con uno “zuzzurellone” come Banfi, che da giovane, negli anni Settanta, saltava, al cinema, sui letti di ogni donna un po' discinta, figurarsi se non funziona con Berlusconi, dev'essersi detto, che esce fresco fresco e pulito pulito da un'infinità di contumelie sui suoi costumi sessuali! La verità, però, è che Banfi si è convertito presto, si è redento con prove ultra accreditate di nonno amorevole. Berlusconi, invece, è solo all'inizio del percorso purgatoriale, a base di ius soli (temperato), di unioni civili (una volta tanto in linea con la signora Merkel) e di qualche affettuosità con la sinistra in materia di legge elettorale. Certo, non è poco per uno come lui, ma non basta fingere, anche se siamo sul set della fiction della politica. Bisogna veramente rinunciare a fare ciò in cui meglio si riusciva da giovani. Banfi è diventato un nonno Libero credibile e seguito perché ha rinunciato a far ridere. Berlusconi, con lo stesso principio, dovrebbe rinunciare anche lui a fare ciò che gli veniva meglio: prendere per i fondelli la gente.
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Di graduatoria, di classifica, di ex aequo riguardanti il verdetto per la capitale della cultura nessuno parla, non se ne riesce a sapere niente di ufficiale. Bisogna fare giri immensi per tornare sempre al punto di partenza, quello da cui trapela, da un giornale romagnolo e da una cronaca barese de “La Repubblica”, che i sei voti non catturati da Matera si sarebbero distribuiti, tre per ciascuno, tra Siena e Ravenna. A Perugia, Cagliari e Lecce non sarebbe rimasto nemmeno un punticino per suturare la ferita della sconfitta-che-sconfitta-non-è. Matera, dunque, batterebbe Perugia e Cagliari e Lecce per sette a zero, con un punteggio ancora più pesante di quello di sette a uno con cui il Bayern ha chiuso la partita contro la Roma.
Se qualcuno è in grado di smentire questa informazione e di indirizzarmi su quella eventualmente giusta, sarò ben felice di ricredermi e di spostare in un'altra direzione questo mio tiro critico ulteriore su Perugia2019. Altrimenti, con le notizie ricavate dalla rete, non posso che stigmatizzare una volta di più un silenzio paradossale su una realtà che si voleva molto partecipata. Il progetto luminoso, il programma scintillante ha paura di ammettere una sconfitta così pesante? Dopo tanti apprezzamenti, possibile che nessun giurato sia stato colpito dal fascino di Corso Vannucci? O i meccanismi in base ai quali ha lavorato la Giuria sono del tutto diversi da quelli ai quali sto pensando e non ha senso parlare dei punti, divisi o indivisi, attribuiti alle città che non hanno conseguito il successo della prima posizione? Perché non ci viene detta una parola su questo aspetto e si lascia che la curiosità un po' scandalistica delle pagine locali dei quotidiani umbri si orienti solo a fare le pulci ai compensi di chi ha lavorato e lavora per la Fondazione e a cincischiare sul nome di Joseph Grima, da Assisi, direttore del progetto vincitore di Matera?
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Con le valigie già pronte per partire alla volta di Lisbona, José Manuel Barroso è apparso molto amareggiato nei confronti dell'Italia durante la conferenza stampa finale del vertice tripartito che si è svolto ieri a Bruxelles. La vicenda della pubblicazione, in Italia, della sua lettera sulla Legge di Stabilità del nostro Paese è troppo nota per tornarci sopra. Invece vale la pena di soffermarsi sulla reazione dell'ormai cessato Presidente della Commissione Europea, che ha ricominciato a piangere come fa un vero portoghese. Era ora! Com'è mai possibile, infatti, che quando arrivano sugli scranni del cuore dell'Europa, gli uomini politici di ogni nazionalità perdano, specie se occupano dei posti-chiave, i tratti inconfondibili delle loro identità nazionali? Come si sarebbe potuto indovinare, al di là dell'inequivocabile cognome, che Barroso è un politico portoghese? Niente in lui ha fatto mai trapelare l'animo, che dovrebbe essere profondamente mediterraneo, oppure il calore e il tono ardente, che dovrebbero fare parte dei cromosomi dei lusitani. Niente, tutto rappreso in una maschera che altrimenti non si può definire che europea. L'Europa che cambia i connotati fisici e morali ai rappresentanti degli Stati nazionali esiste e Barroso ne è la prova. Prendete Van Rompuy: in lui la differenza fra come ci si immagina un belga, freddo e un po' scostante, e la maschera del dignitario europeo non esiste, le due immagini si sovrappongono in una persona senza sentimenti, senza entusiasmi né amarezze. Ma Barroso no, Barroso, nella sua lunga carriera a Bruxelles, avrebbe potuto provare a essere un po' meno austero e, detto in maniera “strettamente confidenziale”, un po' più simpaticamente e amaramente portoghese. A meno che, per “strettamente confidenziale” - com'è scritto nella lettera inviata all'Italia – non di debba intendere qualcosa di meno amicale e di più viscidamente perverso, di europeo alla Van Rompuy, qualcosa come l'avvertimento che un padrino manda usando parole come “riservatezza” e “reciproca fiducia”. Ma se questo fosse il clima un po' chiuso e segreto che regna sull'Europa, cos'avrebbe di diverso da quello di organizzazioni molto meno raccomandabili per occuparsi della gestione del nostro futuro transnazionale?