DIS…CORSIVO. ALCUNE DOMANDE A PROPOSITO DI GIUMAN

NOSTRADAMUS di Maurizio Terzetti / Ci sono giorni in cui, specie in estate, il sole colpisce le vetrate di alcune chiese di Perugia così perfettamente che il lampo abbagliante che se ne genera folgora, a distanza di chilometri, sui colli di Assisi, la vista di chi ama la media lontananza d’un paesaggio come il richiamo più potente al proprio essere disperso sulla terra.

La mostra “Last time” di Giuliano Giuman ripete, nel chiuso degli spazi espositivi dedicati, la complessità di queste intersezioni fra cielo e terra ed è un miracolo sul quale, a proposito di quell'arte, mi sono altre volte soffermato, parlando, soprattutto, dell'opera “Ianuae” che Giuman ha installato sulle colline di Brufa nel 1991.

Vedendo, adesso, gli allestimenti di “Last time”, il mio cuore ritrova ed esprime le stesse sensazioni che il manufatto installato per “Scultori a Brufa” fa mi aveva mi aveva suggerito.

Stavolta, però, per un insieme di motivi, ho il cuore diviso fra l'assoluta condivisione della proposta espositiva appena inaugurata e il rimpianto per un'aspirazione dell'artista che non riesce a coincidere, ai miei occhi, con la propria forza creatrice.

Le opere di Giuman, infatti, sono così potenti per immanenza che ogni manifestazione concreta tende a renderle ancora, e sempre più, debitrici di qualcosa, al gusto e al pubblico, che la storia, la contemporaneità, non riesce a dare all'artista.

Mi spiego meglio. Perugia, come i più importanti centri medievali, è una città nella quale le vetrate hanno trovato spazi di applicazione immensi. Ricordo San Domenico, con i lavori di Bartolomeo Accomandati di Pietro di Vanni e di Mariotto di Nardo, un perugino e un fiorentino che nel 1411 lavorarono al finestrone dell'abside del Tempio domenicano, uno di quelli la cui luce, nel riflesso dei raggi del sole, balena su Assisi da Perugia, come dicevo all'inizio.

E, qualche secolo dopo, ricordo ancora Francesco Moretti, il cui vero proprio tirocinio formativo di pittore su vetro avvenne, nel 1862, sulla vetrata di Mariotto di Nardo, alta 23 metri, con “Santi dell'ordine domenicano e storie di San Giacomo apostolo”, collocata appunto in San Domenico.

Moretti, da quell'anno in poi, si sarebbe segnalato per tutta una serie di lavori legati ad ambienti per il culto cattolico e anche per edifici pubblici (il lucernario, ad esempio, a motivi geometrici per la Sala del consiglio nel Palazzo della Provincia di Perugia, datato 1873).

Questo rapido excursus mi riporta agevolmente alla contemporaneità del lavoro di Giuman, intende conferirgli una solidità di riferimenti che lascia, come notavo, una sorta di rimpianto in me. Quello di non poter concludere che un artista, così esuberante nelle “pitture a vetro a gran fuoco” presenti e allestite a Perugia in ben tre sedi fino al prossimo mese di aprile, non abbia potuto consacrare finora a Perugia un lascito monumentale degno - lui che ne è assolutamente capace - della grande tradizione che ancora oggi ammiriamo in città, da Bartolomeo Accomandati a Francesco Moretti.

E sì che Giuman ha incastonato le sue lucenti sculture e pitture in molti luoghi di culto italiani. Ma perché a Perugia no? Perché un'esplosione di contatto celeste come la sua gialla pittura non ha un luogo in cui, fra alcuni secoli, Perugia possa conservarla fra le mura di un luogo di culto o di un palazzo pubblico?

Va bene che, in Galleria Nazionale, c'è ora quel site-specific di Giuman che trasforma letteralmente la luce della Sala Podiani in un dialogo metafisico. Ma è questa, davvero, in fondo, l'aspirazione dell'arte contemporanea, la sua differenza marcata rispetto alla tradizione, questo non volere un luogo deputato ma un deputare i luoghi ai segni del suo passaggio?

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