DIS…CORSIVO. IL GETTONE DEL BAGNANTE
NOSTRADAMUS di Maurizio Terzetti / L’estate di sessant’anni fa – titolava il “Centro Italia” – sarebbe stata ricordata come quella delle “distributrici meccaniche” di canzoni, o delle italianissime “macchine musicali”: “Le chiamano diversamente, ma se le chiamiamo così tutti le riconoscono facilmente.
Si introduce il gettone e la ‘macchina’ obbedisce all’ordine che le è stato dato – con una lettera dell’alfabeto e con un numero – dalla mano che ha schiacciato i bottoni. Se la ‘campana’ suona per tutta l’umanità, la macchina piena di dischi suona in base a determinati gusti. Sull’Adriatico, quest’anno, ce ne sono un’infinità”.
Chi scrive questa corrispondenza da Rimini, all’inizio di agosto del 1955, è Franco Angelini, spedito dal giornale sulla riviera adriatica per vedere come si comportano gli umbri in vacanza su quel mare che, adatto per lo più alle famiglie, con il jukebox sta diventando sempre più il luogo per corteggiamenti e avventure di scapestrato libertinaggio provinciale.
Scrive Angelini: “Una volta si diceva che gli umbri erano restii a muoversi, a prendersi le vacanze da qualch’altra parte. Basta scorrere le liste delle ‘presenze’ per cambiare opinione. Vengono in Romagna e vanno sulla costa marchigiana. Vanno su quella abruzzese e in cento altri luoghi, su questo o su altri mari. Anche nel 1955 hanno cominciato ad affollare le spiagge per tempo. Hanno messo e mettono il loro gettone in una delle ‘macchine’ di cui sopra abbiamo parlato. Hanno fatto e fanno quello che hanno fatto e fanno i bagnanti delle altre regioni”.
Però, secondo l’inviato del “Centro Italia”, una cosa manca ai villeggianti che vengono dall’Umbria: la capacità di “reclamizzare” adeguatamente, con i loro racconti e le loro chiacchiere, la terra dalla quale provengono.
Sono anni, invece, a metà dei Cinquanta del secolo scorso, nei quali si crede nel potere taumaturgico della promozione turistica fatta porta a porta, sull’onda dell’entusiasmo dei singoli e delle famiglie, per spontanea trasmissione, complice anche la parlata dialettale regionale, dei valori che per quindici giorni o un mese si è voluto lasciare a casa. “Siccome i bagnanti” – argomenta Angelini – “da qualunque regione italiana o straniera vengano, sono un po’ i ‘piazzisti’ di quella regione e ne fanno conoscere gli aspetti meno noti, l’Adriatico sciorina, quando è estate – e quest’anno come sempre – quello che le varie regioni e le varie latitudini ‘sono’ nella popolazione che le contraddistingue”.
In questa operazione, gli umbri appaiono carenti, sobri, non chiassosi e sentimentali come sono. A meno che - suggerisce l’articolista - non si decida di creare per tempo canzoni ispirate al sentimento che emanano i paesaggi dell’Umbria, di farne delle incisioni e dei dischi da inserire nelle “distributrici meccaniche” di musica, di aspettare che qualche monetina entri nel jukebox per selezionare quel po’ d’Umbria che merita di essere apprezzata, premiata e promossa turisticamente: “Anche se il nostro tempo è meccanico, i valori d’una terra che nella macchina non ha ‘perduto’ le esigenze spirituali dei suoi abitanti sono quanto mai validi. L’Umbria basta ‘raccontarla’. La villeggiatura serve in parte, attraverso una gamma quanto mai assortita, anche a questo”.
Un motivetto, una canzone, un refrain. Non si accorgeva, il bravo Angelini, che l’Umbria, cultura dialettale a parte, non era mai stata granché sul piano dei ritornelli e dei temi musicali da hit parade. Parolieri e cantanti, compositori e interpreti di livello nazionale provenienti dall’Umbria il decennio successivo ne avrebbe consacrati, ma tutti privi, rigorosamente, del saper fare una melodia popolare umbra da inserire nel jukebox o da far scattare in un mangiadischi, bravi, invece, a inserirsi nelle mode musicali del tempo e a percorrere il gusto nazionale, al quale, salvo rare eccezioni (la canzone napoletana, soprattutto) non si chiedeva la variante regionale come marchio di originalità.
Però su una cosa, Angelini aveva ragione: “L’Umbria basta raccontarla”. E il fatto che, sessant’anni dopo il jukebox, non abbiamo ancora imparato a farlo, questa sì che è una colpa vera, un insuccesso clamoroso, una svendita alle campagne pubblicitarie pensate sempre altrove, un peccato di inautenticità, la prova di una crescita sessantennale solo ideologica e poco emotiva, l’abdicazione ai luoghi comuni, il daltonismo del verde in una terra che si è voluta chiamare verde a dispetto di ogni cecità fisica e spirituale intervenuta nel frattempo riguardo a quel colore, la mancanza di una letteratura capace di raccontare – in poesia o in un romanzo - anche gli ambienti della terra umbra.
Quanto vorrei che fossero bastate le chiacchiere delle comari umbre sulla spiaggia di Rimini o i discorsi bricconi dei giovani latin lover di Perugia intorno a un jukebox a intrigare e stregare, con il fascino di un racconto pettegolo, l’uditorio nazionale! Tutti, purtroppo, - è bene ammetterlo una volta per tutte - abbiamo chiesto troppo alla naturale ritrosia della gente umbra, abbandonandola poi al suo destino quando si è capito che, sulla spiaggia di Rimini, l’Umbria non si sarebbe mai raccontata, né poco né punto.
Così oggi ci ritroviamo con questo racconto vuoto dell’Umbria che vive di litanie multimediali e di luoghi comuni sparati su grandi schermi senza paura che la povertà delle idee ingigantisca con lo splendore delle immagini, convinti, anzi, che essa si mimetizzi e si nasconda dietro la loro potenza tecnologica. Oggi, che siamo così vanagloriosi da non avere più bisogno di mettere un gettone nella macchina dei suoni, limitandoci a passarle davanti perché s’illumini per noi, solo per noi, incomunicabili bagnanti del terzo millennio.