DIS…CORSIVO. PAESAGGI POSTICCI
NOSTRADAMUS di Maurizio Terzetti / L’affronto più grave che si possa arrecare a un paesaggio – di quelli belli, rurali, storici, italiani – non è tanto la dissennata distruzione, ma il mantenimento, con un trucco passato vistosamente sul volto collinare o vallivo, di una terra, operato a fini turistici.
L'Umbria è maestra in questo tipo di maquillage e prendersela, qui, con questo o quel Comune per la plastificazione del suo paesaggio sarebbe ingeneroso. Ma l'avvertimento di fondali posticci e di scenari da Hollywood dovrebbe bastare per intenderci su che cosa, oggi, non va inteso per paesaggio.
C'era una volta il paesaggio, ora al suo posto c'è una brochure turistica stampata o scaricabile dai siti di Internet. Il paesaggio è rimasto nei quadri, dal Medioevo al secondo dopoguerra del Novecento. Poi anche l'arte, forse prima di tutto l'arte, lo ha abbandonato, ha cessato di raffigurarlo e quei pochi che hanno continuato a farlo sono stati considerati pittori attardati sulla tradizione.
D'altra parte, il paesaggio è nato con la grande pittura, da Giotto a scendere. Prima, cosa c'era prima? C'era uno strato di marasma, gente che viveva malissimo di agricoltura e pastorizia ai margini dei boschi. Un altro strato ancora e troviamo l'idillio degli scrittori romani, al culmine della civiltà imperiale, tutto virgiliano e rustico, fumigante di nebbie e vapori, paesaggio come rarefatta divinità occhieggiante dalle nubi e mormorante dai rivi.
Per arrivare a questo bel quadro essenzialmente di parole e di versi c'erano voluti secoli di campi insanguinati dalle schiere romane in combattimento costante in Italia e in Europa. Un paesaggio in armi, come, ad esempio, il campo della battaglia del Trasimeno, a Tuoro, dove un orecchio particolarmente eccitato sente ancor oggi l'eco dei vinti amaramente e tragicamente sgozzati.
Andando sempre più indietro, a un certo punto dovremmo lasciare la mano alla geologia, a civiltà la cui idea di paesaggio è stata sottratta dalle trasformazioni geologiche vere e proprie.
E non è, questa di oggi, di nuovo una trasformazione geologica dei nostri amati, candidi, scintillanti paesaggi naturali?
Non è il caso di fermarci all'esistente, di fotografarlo, documentarlo, censirlo e condividerlo, vederselo riconosciuto in mezzo mondo per la qualità di qualche prodotto naturale ancora altamente commerciabile. Questo paesaggio è finto, presto scomparirà nel suo equilibrio virtuale e si trasformerà in riproduzione digitale di sogni elettronici.
Bisognerebbe già avere occhi per questi scenari, che un clima mutante e un'urbanistica villeggiante stanno piano piano plasmando per consegnarlo alle generazioni future. Molti di loro, i nostri discendenti, avranno città abbandonate e riprese, ristampate con il laser che, dentro scatole tecnologiche, sforna i laterizi di domani, le piante di domani, i fiori di domani. Qualche terremoto, come sempre è stato, darà una mano al processo in atto. Non bisogna avere paura, è inutile addolorarsi. È stolto, soprattutto, fermarsi a villeggiare nell'esistente, privi di ogni cultura non perché ignoranti, ma perché ogni cultura si riferisce al passato, a sogni infranti, a battaglie concluse, a ricostruzioni finite nei libri di storia dell'arte e nei musei.
Ecco, ad esempio, chi pensa agli ecomusei, è fra tutti il più sprovveduto perché esporta, nel paesaggio posticcio, una serie di modularità museali che si farebbe meglio a conservare e a proteggere, con visioni inattaccabili dal tempo che muta: quadri, soprattutto, con paesaggi infinitamente ricchi di una vitalità che solo al chiuso di stanze ben illuminate si può preservare dallo scempio posticcio che c'è fuori. Uno scempio non distruttivo, solo posticcio.