DIS…CORSIVO. PREGHIERA PER IL PADRE

NOSTRADAMUS di Maurizio Terzetti / Quando ancora si chiamava Elena, la figlia di messer Francesco Coppoli, importante uomo politico perugino del Quattrocento, dedicò al padre un’accorata preghiera perché un tempo atmosferico favorevole risplendesse sul suo ritorno in patria.

Un pensiero flebile flebile, se vogliamo, ma rivelatore di un animo che doveva essere molto turbato dai rischi ai quali i molteplici incarichi pubblici in mezza Italia esponevano il genitore.
La fanciulla - come ci ha fatto tornare in mente la recente intitolazione a lei, sotto il nome da religiosa di Cecilia Coppoli, della Piazza della nuova Monteluce – era destinata a una maturità molto più sicura di sé e temprata nel compito di Badessa.
Ma intanto, da adolescente, colei che si chiamava ancora Elena ed era la sola figlia legittima di Francesco Coppoli si struggeva per un poderoso senso della possibile perdita di quel padre sempre così tanto lontano da casa.
I versi-preghiera di Elena Coppoli - che voglio qui riproporre come ulteriore tentativo di togliere dall’anonimato la titolare di una piazza del futuro della città di Perugia com’è Monteluce – sono talmente delicati e imploranti che viene quasi il dubbio che il timore della giovinetta ricopra angosce di altra natura, magari il timore di perdere il padre in una delle tante, non facili situazioni militari e politiche che si vivevano in pieno Quattrocento.
Non c’è molta leggibilità contemporanea per i versi di Elena Coppoli: scritti in un essenziale, limpido latino umanistico e metricamente rispondenti a quella lingua e quel periodo, sono stati tradotti con efficacia di gusto e di metri romantici da Antonio Mezzanotte nel 1832. Si direbbe che la loro comprensione può essere facilitata più dalla lettura diretta del testo latino che dall’ampollosa versione di Mezzanotte, al quale va comunque il merito di avere interpretato per il suo secolo versi che rapidamente erano andati nel dimenticatoio (Madre Cecilia Coppoli è morta nel 1500), sommersi dalla stessa fama di santità della nobildonna perugina.
In ogni caso, se questa leggibilità manca, ciò che si impone con forza è il senso stesso che fa da ossatura a tutto l’impianto letterario della poesia. E quel senso, tutto storico e sintetico, è quello, semplice e puro, della preghiera di una figlia in apprensione per il ritorno del padre, puro ed elementare sentimento che attraversa le epoche e che ogni adolescente ha provato una volta almeno nella sua vita.
Se ci teniamo a questo senso, e a nient’altro che ad esso, le parole di Elena Coppoli diventano universali e spontanee, fanno pensare all’incubo che assale una giovinetta mentre sente, nel chiuso della sua stanza, di notte, il sibilo del vento e lo scrosciare della pioggia e sa che uguale protezione potrebbe non avere, in quel momento, suo padre, che non riposa sotto lo stesso tetto, una stanza più in là.
E questo senso complessivo si rivela coerente con il tipo di rapporto che ha legato la giovane Elena a suo padre: sappiamo infatti quale grande investimento avesse fatto messer Francesco Coppoli su quella figlia e che, non avendo più speranza di figli maschi legittimi, "volse fare di lei come de uno figlio maschio", procurandole maestri in casa, avviandola allo studio delle lettere, "e come era de età la voleva conventare o addottorare”.
Elena, invece, poi si sposerà giovanissima, messer Francesco Coppoli morirà, anche lui giovane, di peste nel 1441, la ragazza, quando ancora non aveva che vent’anni, aiutata dai francescani dell'Osservanza, fuggirà a Foligno, accolta nel monastero di S. Lucia, dove prenderà l'abito delle Clarisse.
Così questa poesia, intitolata “Ad ventos ut placentur” (“Ai venti perché si plachino”), finisce per rappresentare il limite ultimo dell’ingenuità di una bambina, l’estremo tentativo fanciullesco di tenere il padre tutto per sé, forse mentre già s’avvertiva che il domani preparava ben altri scenari a tutta la famiglia Coppoli, la cui casa, preziosa e opulenta, era situata nel Colle Landone.
E sul Colle Landone, in cima alla nostra Piazza d’Italia, di vento doveva correrne sempre molto, ieri come oggi, tanto da turbare i sogni di una bambina che si educava al greco e al latino mentre ancora, vicino a sé, conservava i giochi adatti alla sua tenera età.
Questo, insomma, è il quadro che mi sono fatto dell’infanzia della futura Badessa di Monteluce, Cecilia Coppoli, che quand’era ancora Cecilia scriveva così:

Voi non offesi, né spregiai superba
Il poter vostro, o Venti, ond’io molesti
Giorni per voi conduca in sorte acerba.

Lieto andonne a fruir dolci ozj agresti
Il caro Padre: ah! temo in fosco giorno
Che fredda piova il suo tornar funesti.

Or via benigni mi arridete, e intorno
Le folti nubi dissipate, o Venti,
E illeso il Genitor faccia ritorno.

Eolo, se accolga i voti miei ferventi,
Figli d’ingenuo cor, pietoso il Fato,
Fumerà per mia man d’incensi ardenti

Su questi Colli a te l’altar sacrato.

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