Dis…corsivo. L’Umbria vista da Rieti
NOSTRADAMUS di Maurizio Terzetti / “La vostra Città, la quale situata nel centro della nostra Italia fu madre di Popoli senza numero di Umbri, cioè di Sabini, di Piceni, di Picenti, di Sanniti, di Osci e di Vestini, e che dopo aver dato origine a Dinastie ed a Regni, ascritta a Municipio Romano, fu il Capo dell’Umbria Sabina, dee riputar come sue le glorie di questa Provincia, e prender parte nei torti, che a lei si fanno”.
Oggi mi sono immerso nella lettura di un’opera che può apparire strana e bizzarra, ma che, pur essendo stata pubblicata nel 1798, mescola elementi storici e materiali leggendari come anche noi, nei dibattiti sulla individuazione della macro regione dell’Italia centrale, sentiamo fare e propagandare.
La città alla quale è indirizzata quella dedica infuocata è l’antica città di Rieti, nelle persone dei suoi “pubblici rappresentanti”; il titolo dell’opera, pubblicata a Perugia “nell’anno VI dell’Era Repubblicana”, cioè nel 1798, è “L’Umbria vendicata negli antichi e naturali suoi diritti”; l’autore, che si cela sotto lo pseudonimo di Diocleo Alfejano, è Antonino da San Gemini, vissuto tra il 1728 e il 1814, frate cappuccino di una certa importanza che al secolo si chiamava Egidio Antonio Milj.
Il frate di San Gemini scrive all’inizio della Repubblica Romana che, instaurata dai francesi, aveva avuto per effetto, a carico di Rieti e della Sabina, l’incorporazione nel Dipartimento del Clitunno, con capoluogo Spoleto.
Io non seguirò qui l’autore nelle sue elaboratissime mitologie, che sconfinano fino al Paradiso Terrestre per cercare di dimostrare la superiorità degli Umbri su tutti gli altri popoli dell’Italia, né mi metterò a congetturare sul torto fatto a Rieti, durante l’Era Repubblicana, che, agli occhi del frate cappuccino, è emblematico dell’affronto più generale che potenze straniere, mentre lui scrive, stanno facendo all’Italia e ai discendenti dei suoi, da lui presunti, primi abitatori: gli Umbri. Per tutti questi aspetti il libro è, peraltro, di godibilissima lettura e dimostra come il calore polemico di un dato momento storico, a distanza di secoli, sia destinato a stemperarsi e ad addolcirsi: su questo vorrei che riflettessero quanti, oggi, prendono molto sul serio le dispute sui confini e stiracchiano antiche leggende per conferire loro valore di fondamento storico e, soprattutto, pregnanza di motivazione politica.
No, di quell’opera scritta nel 1798 rimane prevalentemente, se non unicamente, un fortissimo, amorevole, connotato poetico, la descrizione, accorata e bella, di una visione dell’Umbria alla quale non siamo abituati in Umbria, presa com’è dal punto di osservazione di Rieti, dell’Agro “Rietino”, come dice Diocleo Alfejano.
E la poesia dice pressappoco così: c’era un’antichissima Nazione Umbra, che non riuscì ad estendersi, come avrebbe potuto e meritato, né al Nord né al Sud dell’Italia. Non per questo, però, quella Nazione fu meno grandiosa, poiché dette vita a molti popoli che si diffusero per tutta l’Italia, a partire dal centro rappresentato dall’ Agro “Rietino”: “Sembra cosa assai naturale per se stessa, e molto credibile, che quei primi nostri Umbri-Chittimiti avendo osservata dall’agro Rietino, ove eransi fermati a prima giunta, come si disse, la quanto bella altrettanto vasta estensione di terreno situato per dritta linea tra i fiumi Nera e Tevere, e tra le montagne di Narni, e di Spoleti, e la gran Valle eziandio tra queste, e tra le altre di Assisi, dall’altra banda, detta ora Valle di Spoleti, si disponessero ben tosto ad occuparle; e che Chittimo loro Padre spedisse a Todi, Amelia, Narni, Carsoli, Spoleti, e fors’anche a Bevagna, e in ciaschedun luogo varie Colonie, affinché occupassero i siti più elevati, di tutto il contorno, conforme era il costume di quei primi tempi, e dessero così principio alle prefate Città, di tutte le altre della Provincia le prime, forse, come dice Porcio Catone, e le più antiche”.
Gli Umbri che rimasero nell’Agro “Rietino”, prosegue e si conclude la fantastica poesia, “si andarono ancor essi allogando in Colonie per quei contorni nell’ Abruzzo, e nella Sabina”. Cambiarono, però, il nome di Umbri in quello di Sabini, probabilmente per la loro grande devozione verso gli Dei: “Plinio e Festo dicono essere ad essi ciò derivato dal trasporto avuto per la pietà, e religione, e per gli ossequj, che indefessi prestavano alla Divinità, e che per siffatta cagione furono appellati Sevini”.
Ecco: storico o leggendario che sia, questo avere rivissuto, da parte di Diocleo Alfejano, nella trance monacale che gli urgeva dentro, uno spettacolo di millenni prima, è arrivato fino a noi, a me, perlomeno, che ne ho dato traccia in questo articolo, sospinto dal bisogno di riassaporare anch’io, da diversi punti di vista, un’unità umbro-sabina che non può essere stata solo nei sogni di un erudito frate di fine Settecento.