Dis…corsivo. Uscire a Magliano Sabina
NOSTRADAMUS di Maurizio Terzetti / Andando dall’Umbria a Roma in automobile, credo che a ognuno di noi il casello di Magliano Sabina faccia abbondantemente l’effetto di essere in un’altra Regione, di essere pienamente nel Lazio. Roma è ormai vicina, evviva, siamo usciti dalle nostre contorte viabilità di provincia e viaggiamo spediti, a tre corsie, verso Roma nord. Così quando torniamo indietro, stanchi di quelle poche ore a Roma come solo Roma sa estenuare il sistema nervoso, il casello di Magliano ce lo lasciamo alle spalle, lo traguardiamo con l’ormai prossima uscita di Orte alle viste, due passi e siamo a casa, in Umbria intendo, anche se dobbiamo arrivare ancora a Assisi o a Perugia, com’è nel mio caso.
Eppure, se uscissimo a Magliano, la strada di casa sarebbe, anche lì, a due passi: dal casello al Castello delle Formiche, in territorio di Otricoli e in direzione della vicina Narni, appena entrati in Provincia di Terni, non ci vuole più di un quarto d’ora, avendo a destra, sullo sfondo, i Monti Sabini e a sinistra, in lontananza, il Viterbese.
Eccolo, dunque, l’ingresso più a sud in Umbria, falsato e truccato dall’autostrada, benefica ma menzognera su ciò che i territori conservano di antiche simbiosi mai venute meno. Leonessa e Cascia a nord, Stroncone e Greccio nel centro, Magliano e Narni a sud, dove sembra di essere in pieno Lazio: sembrano queste, a meno di smentite da parte degli abitanti del luogo, le vie più dirette e caratterizzanti della comunicazione giornaliera fra la Provincia di Rieti e l’Umbria, quelle grazie alle quali, pur in prossimità dell’importante casello di Magliano, la gente non ha bisogno di prendere l’autostrada per tenersi insieme, regolare i propri affari, magari solo spostarsi per fare spese, per cercare opportunità, come, nell’Alta Valle del Tevere, vanno e vengono con la Toscana passando il confine di San Giustino e di Sansepolcro.
E chi l’ha detto, poi, che, uscendo a Magliano, giacché ci sentiamo a casa, anziché andare in direzione del Castellino delle Formiche – con i suoi muri del Duecento, le costruzioni con portali a sesto acuto del Trecento, il portale cella canonica del Quattrocento e la torre diventata campanile – non ci venga la voglia di scendere più a sud nella Provincia di Rieti, verso quel portento di potere e di impero che è stata nei secoli l’abbazia benedettina di Santa Maria di Farfa? Dico Farfa, ovviamente, non a caso, pensando a quante importanti abbazie in Umbria sono appartenute a questo monastero o hanno gravitato nella sua orbita, così ben incuneata tra il Patrimonio di San Pietro e il Ducato di Spoleto. Dovremmo sempre ricordarcene, a livello di comunità e di opinione pubblica, non lasciando il privilegio della memoria agli storici e agli eruditi locali, perché anche da questo dominio territoriale così esteso e, oggi, così decentrato, passa un filo non secondario della treccia di eredità che uniscono ancora, e più possono unire, l’Umbria alla Sabina.
Dopo Farfa e il Comune di Fara, nel quale si colloca l’abbazia, c’è ancora molta Sabina da percorrere: noi, per arrivare fin qui, in automobile, ci siamo addentrati per un’oretta nella Provincia di Rieti e pensiamo, per oggi, di non andare oltre. Magari lo faremo domani, cominciando un viaggio che ci farà toccare con mano le differenze fra l’intensità dei confini condivisi con l’Umbria e l’attenuazione inevitabile di questi legami quando entriamo in un’area geografica più vasta, in questo caso verso Collalto Sabino e Borgorose, ai confini con l’Abruzzo.
Ma l’area vasta – come si dice oggi il territorio del futuro, al cui imperativo non sono state sottratte nemmeno le Province – ha bisogno, prima di tutto di essere conosciuta e visitata e poi riformata. E per farlo bisogna prima di tutto lasciare le autostrade e riprendere strade il più possibile interne, retrocedere dalla comodità dei navigatori satellitari e scegliere programmaticamente di chiedere la strada a qualcuno quando non la si conosce.