DON MATTEO, PROVIAMO A RAGIONARE

di Maurizio Terzetti / La questione della città del set di “Don Matteo” si fa ogni giorno più spinosa. C’era da aspettarselo? In un certo senso, sì, perché la fiction ha prodotto una grande promozione di Gubbio e il suo potere di mercato sembra ancora tanto forte da potersi dispiegare su altre città umbre. In un certo senso, no, perché, sempre per stare al mercato, per quanto importanti siano le cifre e i riscontri che si traggono dalla prosecuzione a Spoleto della commedia girata per anni a Gubbio, tali vantaggi tendono ad essere sempre più marginali, specie se si riflette che tanto Terence Hill quanto Nino Frassica avrebbero lasciato capire che siamo al penultimo quadro della serie.
Che vita televisiva infinita possono mai avere dei castelli incantati come quelli di “Don Matteo” e, a suo tempo, de “I carabinieri”, supposto traino dell’economia di Città della Pieve? La stessa, ad esempio, che ha avuto la serie del “Maresciallo Rocca”: una decina d’anni che hanno fatto la fortuna della città di Viterbo.

Ecco, dunque, il primo ragionamento da fare: i cicli delle produzioni televisive, Rai o non Rai, si concludono, hanno inizi incerti, una vita rigogliosa e ricca di frutti, un autunno inevitabile. Non può essere diversamente e, come in ogni impresa praticata sul mercato delle opportunità di lavoro e non pietendo l'assistenzialismo di un'azienda statale, bisogna saper stare sul mercato senza puntare i piedi, senza piagnistei, senza retorica. Bisogna solo approfittare del momento, costi quel che costi in termini di immagine complessiva della storicità profonda e della cultura immensa delle città umbre.
E questo è il secondo ragionamento: come si fa a veicolare la tradizione culturale umbra di Gubbio e quella longobarda di Spoleto, le loro specifiche nobiltà, con la disponibilità ad essere vetrine di messaggi commerciali e di una comicità tutta da verificare?
Terzo ragionamento: è possibile che la serie di “Don Matteo” sia stata anche un'opportunità per giovani attori umbri e per caratteristi più anziani, che sono stati inseriti nei cast con ruoli di diversa importanza. La promozione degli attori nati in Umbria avviene il più delle volte con la loro migrazione verso metropoli italiane ben più ricche di prospettive, anche se non prive di un apparato ferocemente illusorio. Quanto sarebbe stato importante puntare a far entrare nei cast di “Don Matteo” attori umbri? Perché non si è avuta la forza contrattuale di ottenere questo vantaggio generazionalmente senza pari?
Lo stesso – e qui siamo al quarto di tanti altri ragionamenti che adesso ometto – vale per la scrittura dei singoli episodi: non risulta, infatti, neanche qui, nessuna integrazione col gli “writer” e con gli sceneggiatori che, magari a loro insaputa, vivono, giovani e pieni di speranze, in Umbria.
C'è, insomma, una conclusione molto amara al termine di questi ragionamenti e non riguarda il “bellum” tra Gubbio e Spoleto, non concerne le cifre degli albergatori, non si confronta con le pur necessarie grandezze economiche che escono dalle trattative fra la produzione Rai e le “istanze” locali. L'amarezza deriva dal vedere l'Umbria terra di occupazione intellettuale e mediatica, sia che passino sullo schermo atletici preti in bicicletta o finti carabinieri di finte città. Potremmo fare uno sforzo, invece, da “Don Matteo” in poi, per guadagnare un po' più di vantaggi da certe produzioni in termini di compartecipazione vera agli episodi, scrittura e interpretazione comprese? O davvero crediamo alla favola, che raccontano le produzioni, secondo cui esse sono dotate di quella professionalità che da noi non esisterebbe? In fondo, con le nostre città, noi umbri ci mettiamo la faccia e non vorremmo che quei bei volti di Gubbio e di Spoleto, finita la sbornia di “Don Matteo”, si ritrovassero tumefatti con le occhiaie dei rosoni gonfie di lacrime.

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