Letture. Vincenzo che resuscitò dal Chiascio

di Maurizio Terzetti / Ormai, in ogni frazione di Assisi, s’era cominciato a temere l’arrivo di quella notizia dal fronte peggio, tanto peggio che una piena del Chiascio. Ed era arrivata, puntuale, anche per la famiglia dei Patuelli, la comunicazione: Vincenzo, il figlio venticinquenne di Antonio e di Rosa, falegname lui, contadina lei, di Torchiagina, era caduto in combattimento ai primi di dicembre del primo anno di guerra contro l’Austria, non più fra i primi, però, ormai, a poter vantare quel titolo, che nobili, borghesi e proletari si dividevano, unica eccezione alle differenze di ceto, in maniera tutto sommato molto democratica.

La morte in trincea sembrava non fare sconti a nessuno, anche il figlio del Sindaco di Perugia, alla fine di ottobre, aveva lasciato la vita sotto due shrapnel, sulla Marmolada. Oggi, invece, toccava al ben più modesto, socialmente, Vincenzo Patuelli, del sobborgo di Torchiagina, anche lui falegname come il padre, anche lui impegnato a seminare e arare nel terreno dei padroni per i quali lavorava la madre.

Anche per lui, fante alle prime esperienze su un campo di battaglia, il fiume su cui sorge il borgo, il Chiascio, era tutto, una fonte di pericolo, un episodico aiuto al pranzo e alla cena col pesce che era bravo a riportarne, un simpatico confidente delle prime passioni d’amore quando gli era riuscito di appartarsi sulle sue sponde con Ada, qualche settimana prima di partire per la guerra, un ricordo ormai della felicità dell’infanzia e dell’adolescenza, quando una frotta di ragazzi del paese, come lui, andavano nudi a fare il bagno in quelle acque d’estate.

Se avesse potuto dire, il cruccio più grande, nel dover partire per il fronte, era stato dovere abbandonare il fiume e sapere che lassù, sulle montagne, non avrebbe trovato un nuovo fiume placido e pianeggiante come il suo Chiascio, ma torrenti impetuosi e fragorosi che venivano giù a precipizio dagli alti picchi che andava a difendere.

Così, quando era arrivata dal Comando militare la comunicazione ufficiale della sua morte in battaglia, il primo pensiero del padre, soccorsa la moglie che era svenuta e aveva avuto una brutta crisi cardiaca, era stato di arrivare fino al fiume per piangere, tutto solo, la morte di quel figlio nel luogo che lui amava più di ogni altro.

Lo sapeva, Antonio, che Vincenzo e il fiume erano stati una cosa sola, che il figlio era morto a lui altrettanto quanto a quelle acque fredde di metà dicembre, nelle quali, se si concentrava, l’immagine del volto del figlio era sicuro che sarebbe apparsa, si sarebbe materializzata come in una antica leggenda. Di leggende, certo, Antonio, non sapeva granché, ma tutto quel silenzio fra lui e il fiume, col figlio fatto a pezzi chissà dove, con le parole di conforto che avrebbe detto il prete, con il dolore della madre di suo figlio che nessun viatico avrebbe strappato dalle viscere della donna, con la sua vita di uomo ancora giovane ridotta a un inutile fardello, tutto quel pomeriggio vicino al fiume gli sembrò così intenso che finì per perdere le forze, come in una leggenda, e realmente svenne, ebbe un momento d’assenza, dal quale, per l’assurdità della vita, a farlo riavere fu un colpo di fucile sparato da un cacciatore a uno stormo d’uccellini frullato via da una quercia, su, in cima al campo. E in cima al campo, non raccolto dal cacciatore, era rimasto – Antonio lo vide, ma passò oltre – un fringuello striminzito nella rugiada incipiente.

Quando poté riprendersi, Antonio fu davvero encomiabile nell’organizzare tutto il funerale senza bara che il paese aveva voluto a tutti i costi. Non ci fu nemmeno un compaesano che non si fece vivo a casa dei Patuelli per esternare in qualche modo il suo dolore e per associarsi alla surreale situazione di piangere il morto che non c’era, di fare tutte le esequie, compreso il rito finale con l’incenso, per un’anima che – disse il prete – era sicuramente già resuscitata in una schiera di bravi parrocchiani già defunti che l’attendevano in cielo per dargli il conforto della terra natale che non aveva potuto avere materialmente quaggiù, per quanti sforzi tutti i i compaesani avessero fatto di onorare degnamente la sua memoria di valoroso soldato.

Lo strazio del paese di Torchiagina, in quei giorni ormai tanto vicini al Natale, era tale che nessuna notizia, nessun fatto, vicino o lontano dal sobborgo sul fiume, poté per qualche giorno occupare un posticino negli interessi dei compaesani del giovane Vincenzo, morto chissà dove, sepolto chissà dove per via della comunicazione degli Alti Gradi dell’Esercito Italiano arrivata tutta piena di censure e omissis. A Torchiagina restarono indifferenti perfino di fronte alla notizia, molto conclamata, che un nutrito gruppo di prigionieri di guerra austriaci erano giunti proprio in quei giorni a Perugia e che venivano trattati – per lo meno così riportavano i giornali – con grande rispetto e vivevano in ottime condizioni di prigionia.

Avessero saputo che sullo stesso treno, o giù di lì, che trasportava i nemici fatti prigionieri viaggiava anche una missiva delle Forze Armate austriache – recante il visto dell’autorità austriaca competente – in cui si comunicava, alla famiglia di Vincenzo Patuelli, che il loro congiunto…

… Che il soldato Patuelli Vincenzo, di Antonio, anziché morto, era vivo, anche lui prigioniero, nel campo di concentramento di Mauthausen! Quando vennero a sapere tutto ciò, quando la notizia della nuova lettera fece il giro del paese come un’ondata di piena del Chiascio, sarebbero andati a Perugia, avrebbero baciato ad uno ad uno i nemici austriaci, li avrebbero ospitati, loro, nelle loro case, avrebbero dichiarato chiusa la guerra, finite le ostilità: basta, vinta o persa, la guerra era finita, quel giovane che avevano saputo morto, era vivo, questo bastava, questo miracolo valeva la vita, la storia, la fede, la gloria di un popolo intero.

Naturalmente, non fecero niente di tutto questo, ma la colletta per soddisfare la richiesta di Vincenzo – cinquanta lire per garantirsi una prigionia decente – fu esaudita nel giro di poche ore senza badare a nessuna delle infinite povertà della gente di allora.

Un giornale di allora fa sapere che le scene di esultanza alle quali si abbandonò il paese per quel ragazzo letteralmente resuscitato furono letteralmente “indescrivibili”. E indescrivibile è anche ciò che successe al padre di Vincenzo quando, qualche giorno dopo, tornò al fiume, in una sera che era ormai quasi Natale, per starsene un po’ da solo, dopo tutto il turbinio di emozioni contrastanti di quei giorni di un dicembre che non avrebbe mai più dimenticato.

Ancora il silenzio sulla sponda, ancora l’eco, nelle orecchie, delle grida dei bambini, fra i quali il suo Vincenzo, che si tuffavano in quelle acque. Ancora uno sparo del cacciatore, che lo risveglia dal torpore, stavolta dolce, della trance di un nuovo Natale. Ancora due passi per tornare a casa, mentre stavolta, nessun fringuello è rimasto per terra, ma tutto lo stormo vola, sfuggito alle pallottole, come il suo Vincenzo per magia resuscitato dal Chiascio.

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