LEVANTE. Considerazioni del mattino VERRÒ A TROVARVI
di Maurizio Terzetti
Probabilmente la promessa l’ha fatta più come Vescovo di Roma che come capo della cristianità. In ogni caso, Papa Francesco ha garantito “appena possibile” una sua visita nei luoghi del terremoto. Così facendo – con un atto che forse era inevitabilmente nelle cose – ha di fatto cambiato registro al concerto delle attestazioni di vicinanza alle popolazioni che abbiamo sentito finora.
Belle, improntate alla misura, diverse, molto, molto toccanti sono state quelle del Presidente Mattarella, ad esempio, ed è forse sulla linea del suo addolorato contatto con la gente che possiamo aspettarci la visita di Papa Francesco.
A oggi, quella visita egli l’ha solo promessa, unendo sincero dolore a senso della discrezione e a rispetto dei tempi imposti dall’opportunità diplomatica nei confronti dell’Italia e delle sue istituzioni.
Ma, a oggi, della promessa colpiscono particolarmente il tono pastorale e la venatura di intima partecipazione personale che sono propri di questo sacerdote universale che veste i panni del romano pontefice.
Già, romano.
Quanto e come si può dire che Roma sia stata vicina alle popolazioni, soprattutto a quelle del Reatino, in termini altamente e semplicemente simbolici come quelli pronunciati da Papa Francesco? Amatrice e Accumoli – ma lo stesso discorso si potrebbe fare anche per Norcia, al di là della appartenenze regionali odierne – hanno fornito, negli anni, svariate energie lavorative e imprenditoriali a Roma. Arrivati nella capitale per “svernare” in senso molto lato, quanti amatriciani – e quanti norcini – hanno creato piccoli imperi nella ristorazione e nella rete delle macellerie di ogni angolo centrale o periferico di Roma? Non è questo un valore simbolico, oggi, in nome del quale trovare qualche parola di umana vicinanza ad Amatrice e ad Accumoli da parte del sindaco di Roma che possa reggere, per quello che può, la semplice promessa di Papa Francesco?
Le corde del cuore, però, sono quelle che sono, ognuno ha le sue e non può far suonare quelle che non ha. Virginia Raggi, in questi giorni, i suoi messaggi simbolici li ha tutti impiegati per cercare di far capire che la candidatura di Roma alle Olimpiadi del 2024 non è proprio opportuna. “Te li do io i Giochi”, sembra dire parafrasando quel triste e sinistro varietà intitolato “Te lo do io il Brasile” con cui Beppe Grillo, nel 1984, stordiva i telespettatori nel suo incipiente delirio di policomica onnipotenza.
Certo, come sindaco, la Raggi il suo ruolo verso Amatrice l’ha svolto, attivandosi come vuole il protocollo. Ma qualche parola un po’ più ecumenica, forse solo un po’ meno distante emotivamente dall’alto Lazio, non poteva trovarla?