Primo Maggio: perché è indispensabile la festa dei Lavoratori
Di Vincenzo Sgalla*
In molti ci chiedono perché nel 2016 ci ostiniamo a scendere nelle piazze per celebrare il Primo Maggio, la festa dei Lavoratori.
Le piazze, è vero, non sono più piene come lo erano 50 o anche 30 anni fa. Questo è un dato di fatto.
Per fortuna, in alcuni territori, come il nostro, il Primo Maggio è ancora festa di popolo, sentita anche dalle nuove generazioni.
Ma in molti altri luoghi non è più così.
Questo certamente deve interrogarci, non scoraggiarci.
Il Primo Maggio è stato sempre una festa dei diritti, una festa di classe, quella classe che ha liberato il paese dall’oppressione fascista e nazista e lo ha trasformato in una Repubblica democratica.
La classe dei lavoratori.
Ma il Primo Maggio è stato ed è anche una giornata nella quale riconoscere la forza del lavoro come strumento di progresso per tutto il paese. Le sfilate dei trattori che in queste terre caratterizzano il Primo Maggio sono una dimostrazione di forza e di orgoglio, per il progresso e per il Lavoro.
Solo attraverso il lavoro – posto non a caso al centro della nostra Costituzione repubblicana – l’Italia e l’umanità tutta possono liberarsi dall’oppressione, dall’ingiustizia, dallo sfruttamento, dalla povertà. Questo è il messaggio universale del Primo Maggio.
Ecco, oggi questa convinzione, offuscata nella nostra Europa da anni di relativo benessere e consumismo, torna ad essere assolutamente centrale.
Nell’ultimo trentennio il lavoro ha subito un attacco pesante. La sua centralità è stata messa in discussione. I suoi diritti sono stati man mano ridotti, poi cancellati. Ma soprattutto la sua cultura è stata indebolita, tanto che oggi intere generazioni non hanno consapevolezza dei diritti e della forza che il lavoro può esprimere. Quando a un giovane viene proposto di lavorare a voucher – e nella nostra regione molto probabilmente quest’anno supereremo i 2 milioni di buoni staccati – spesso lui stesso non si rende conto di ricevere una proposta di sfruttamento legalizzato. Con tassi di disoccupazione giovanile superiori al 40%, ma soprattutto con un mercato del lavoro frammentato in cui anche le organizzazioni di rappresentanza fanno fatica a muoversi, tutto viene normalizzato, tutto è accettabile.
Tutto è meglio di niente.
Anche morire di lavoro ormai sembra qualcosa di naturale, fa parte del gioco.
Nei giorni scorsi, in occasione della giornata mondiale per la sicurezza sul lavoro, come Cgil abbiamo diffuso i dati sugli infortuni sul lavoro in Umbria. Ebbene, nei primi 2 mesi del 2016 se ne sono verificati 1800, 30 al giorno. E parliamo naturalmente solo di quelli denunciati.
Ecco, di fronte a dati come questi, di fronte a livelli di disoccupazione senza precedenti, di fronte a 170 crisi industriali che continuano a dissanguare la nostra regione, quello che è assolutamente intollerabile è questo atteggiamento di impotenza, di ineluttabilità che purtroppo la nostra politica sembra aver fatto proprio.
E non a caso avanzano, in tutta Europa, le destre e i populismi, che sguazzano nella crisi e in questo stato di semi-paralisi in cui versano le nostre istituzioni e la nostra politica. La conseguenza è il ritorno di sentimenti e parole che i nostri nonni pensavano di aver cancellato per sempre. Tornano i muri, tornano odio e intolleranza, i prepotenti e gli ignoranti gonfiano il petto, tornano (anche se in realtà non si sono mai fermati) i venti di guerra e la paura.
Chi se non i lavoratori possono fermare questa deriva?
Ecco perché le nostre organizzazioni, che ancora rappresentano milioni di lavoratori in questo paese, devono avere la consapevolezza di questa grande responsabilità. E non scoraggiarsi mai. Anche di fronte alle difficoltà della piazza, anche di fronte al qualunquismo che ci vuole tutti uguali, tutti ladri, tutti attaccati alle poltrone. La sfida, anche nella nostra Umbria, è troppo importante. E noi abbiamo intenzione di combatterla, fino in fondo.
*segretario generale Cgil Umbria