RICORDI PRESIDENZIALI. GIUSEPPE SARAGAT
di Maurizio Terzetti / “Gente come te e come me, al Quirinale, se c’è una sommossa di destra, spara: se ce n’è una di sinistra, si spara”: la saggezza e il discernimento, in realtà, non sono mai venuti meno a Giuseppe Saragat, nonostante parole così lapidarie come quelle, sopra riportate, che avrebbe rivolto un giorno a Pietro Nenni.
Il politico che, come aveva commentato il “Times”, era salito al Quirinale, dopo Segni, con la fama di “uomo migliore scelto nel peggiore dei modi”, avrebbe conosciuto, nell'intero settennato, il suo momento di maggiore successo, acquisendo, in una sola volta, i meriti dell'antico socialista e i riconoscimenti del moderno socialdemocratico.
Ha notato, tuttavia, Sergio Romano (“Il paese delle mille storie”, Rizzoli, Milano 2007) che l'unico momento di autentica gloria Saragat lo ebbe solo quando riuscì a festeggiare, dal Quirinale, l'unificazione socialista del 1966. Per il resto “gli anni successivi gli dettero meno soddisfazioni. L'unificazione fallì, l'Italia precipitò nella contestazione permanente, l'immagine all'estero del paese ne soffrì e lui stesso non poté proseguire con successo il buon lavoro internazionale che aveva fatto con i suoi viaggi negli anni precedenti”. Del resto, pur restando fedele all’alleanza occidentale, non risparmiò critiche agli Stati Uniti per “questa guerra del Vietnam che dura troppo a lungo e che dovete chiudere”, espressione che fu male accolta dalla Presidenza Johnson e sul fronte interno dovette poi affrontare, oltre il ‘Sessantotto’, l’inizio della strategia della tensione con attentati, morti e feriti.
Nell'ultimo messaggio agli italiani del suo mandato, Saragat non tralascia di dimenticare nessuna componente della sua antica fede laica né si nasconde più di tanto le difficoltà che ha dovuto incontrare. I suoi riferimenti storici sono, per quanto riguarda il 1970, il quarto di secolo trascorso dalla fine della seconda guerra mondiale e l'avvio, appena avvenuto, delle Regioni.
Gli manca un accenno, in verità, al centenario della presa di Roma, che non si era celebrato senza una qualche enfasi e che era stato oggetto di una lettera inviata al presidente Saragat da Papa Paolo VI. “Quali mai voti” - si chiedeva il Pontefice - “può avere il Papa per una Nazione, che commemora il fatto culminante del suo risorgimento? I Nostri voti sono di stabilità, di concordia, di prosperità, di progresso sociale e morale, di pace per tutto il Popolo Italiano. I Nostri voti sono tanto più vivi quanto più complesse e più gravi furono le vicende del primo secolo di codesta unificata vita nazionale, e quanto pari all’onore è l’impegno dell’Italia d’aver fatto proprio il nome augusto di Roma: onore grande, impegno grande”. Non si trattava di un semplice atto di invidiabile diplomazia: era il desiderio vero di intrecciare un dialogo con la tensione morale di tutto il popolo italiano, come avrebbe detto Saragat, che il Capo della cristianità esprimeva come Vescovo di quella Roma per la quale da Oltretevere non si cessava di lavorare: “Siamo dunque tuttora profondamente legati a questa eterna Città” - concludeva Paolo VI - “e, per quanto ci riguarda, solo solleciti di quella libertà e di quella indipendenza, che consentano alle Nostre spirituali funzioni, nell’Urbe e nel mondo, il loro normale esercizio, sempre convinti, anzi curanti, che questa Nostra dimora romana per nulla contrasti alla sovranità e alla libera espansione della vita civile italiana; Noi vogliamo anzi credere che la Nostra presenza sulla sponda del Tevere non poco conferisca all’amore e all’onore del nome di Roma in tutta la terra”.
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MESSAGGIO DI FINE ANNO AGLI ITALIANI
DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA
GIUSEPPE SARAGAT
Palazzo del Quirinale 31 dicembre 1970
Italiani,
il 1970 ha visto il riassestamento, non privo di difficoltà e travagli, della crisi del 1969, determinata dalle lotte sindacali per una più equa ripartizione del reddito nazionale.
Le conquiste della classe lavoratrice realizzate nel 1969 si sono consolidate nel 1970 con la strenua e vittoriosa difesa del potere di acquisto della moneta, vale a dire del potere di acquisto dei salari, degli stipendi, delle pensioni, dei risparmi, insidiato dallo squilibrio della bilancia dei pagamenti. E non è stata una difesa facile.
Nei primi mesi del '70, infatti, il processo inflazionistico, anche in ragione dell'andamento della congiuntura internazionale, è stato nel nostro Paese più rapido che altrove e la bilancia dei pagamenti ha presentato un ampio disavanzo; inoltre, la produzione industriale non si è ripresa con la rapidità che sarebbe stata auspicabile.
Verso la metà del '70, la più contenuta espansione della quantità di moneta e misure rivolte a salvaguardare il livello di riserve valutarie e la parità esterna della lira, ma soprattutto un ritmo più intenso di lavoro nelle fabbriche, hanno cominciato a manifestare il loro effetto: le pressioni inflazionistiche si sono attenuate; l'aumento dei tassi di interesse e la collaborazione internazionale - resa più valida dall'atteggiamento di reciprocità seguito in passato dal nostro Paese - si sono tradotti in un freno alle esportazioni di capitali e nella concessione da parte dei Paesi esteri di importanti crediti a Enti pubblici e privati.
Grazie anche all'azione del decreto per il risanamento della situazione economica - che è diventato legge proprio in questi giorni - tendente a ridurre la domanda per consumi privati e a porre le premesse per un aumento degli impieghi sociali e degli investimenti produttivi, l'andamento favorevole della bilancia dei pagamenti appare pienamente consolidato a fine anno; il volume delle riserve ufficiali nette risulta accresciuto, ponendo ancora il nostro Paese ai primi posti nel mondo per il volume di tali riserve e garantendo un ammontare di mezzi liquidi tale da consentire il proseguimento, senza gravi vincoli esterni, della politica di sviluppo economico e sociale. Tuttavia permangono difficoltà nei rapporti di lavoro, che si riflettono in un ritmo ancora discontinuo delle attività produttive.
E' indispensabile che tali difficoltà vengano risolte, onde sia possibile nel corso del 1971 porre in atto la politica di rilancio industriale del Mezzogiorno e affrontare le più urgenti riforme della scuola, della sanità, della casa.
Sul piano politico, permane la tensione determinata da una diversa sensibilità dei vari partiti in ordine al problema della tutela delle libertà democratiche. Tale sensibilità è in rapporto non soltanto con la presa di coscienza di ciò che la libertà rappresenta per lo sviluppo del Paese, ma anche con la presa di coscienza dell'urgenza di alcune riforme e precisamente quelle della casa, della sanità e della scuola, necessarie per dare alla libertà il suo pieno significato.
Molto è stato fatto nel corso del quarto di secolo che ci separa dalla fine della seconda guerra mondiale e dall'avvento di un'Italia democratica, ma molto resta ancora da fare.
Occorre creare posti di lavoro per le nuove leve di operai, contadini, impiegati, giovani diplomati o laureati. Il numero di coloro che hanno un'occupazione remunerata in rapporto alla totalità della popolazione è inferiore in Italia a quello medio dei Paesi europei industrialmente più avanzati; inoltre un gran numero di lavoratori deve emigrare per vivere e far vivere le proprie famiglie.
Nel 1971 debbono essere affrontati ed avviati a radicale soluzione i problemi della casa per i lavoratori, della sanità e della scuola. La soluzione di questi problemi è strettamente legata alla eliminazione della più iniqua forma di arricchimento, rappresentata dalla speculazione delle aree fabbricabili. E' iniquo che il lavoratore debba pagare una taglia agli speculatori; è iniquo che gli ospedali e le scuole non si possano costruire perché il prezzo dei terreni è proibitivo. Se il 1971 vedrà la fine di queste esose speculazioni, segnerà una data importante nello sviluppo civile del nostro Paese.
Certo è che dalla soluzione di questi problemi dipenderà una minore tensione nel mondo del lavoro e una maggiore consapevolezza di ciò che la democrazia rappresenta come l'unica forma politica in grado di risolvere in modo giusto i problemi umani. Ciò che si chiama crisi della democrazia non è altro che che la insufficiente o errata utilizzazione dei mezzi di cui la democrazia dispone per risolvere tali problemi. Cercare la soluzione dei problemi sociali per vie non democratiche è utopistico e negativo.
Noi vediamo infatti nel mondo che i livelli più alti di progresso politico, economico e sociale sono stati raggiunti dai Paesi in cui la democrazia si afferma incontrastata, in cui gli inviolabili diritti della persona umana trovano il loro appagamento nell'ambito di una società in cui tutti sono partecipi in equa misura del progresso economico, di una società in cui la giustizia sociale e libertà politica sono inscindibilmente fuse.
D'altro canto noi siamo tutti rattristati e sgomenti per quanto avviene nei Paesi in cui la libertà politica e la giustizia sociale sono calpestate.
Anche quest'anno l'Italia è stata turbata da violenze provocate da piccole minoranze, che hanno avuto però dolorose conseguenze per tutto il Paese. Gli ultimi avvenimenti di Milano ne sono un'amara conferma.
Credo che il dovere di tutti i lavoratori, di tutti i cittadini, sia di dissociare la loro responsabilità, come già in larga misura si sta facendo, dagli atti irresponsabili delle minoranze violente e faziose, le quali, trovandosi isolate, saranno poste in condizioni di non nuocere.
Non mi stanco di ripetere che il miracolismo della violenza deriva sostanzialmente da debolezza morale.
I problemi umani gravi, dolorosi, difficili, esigono, per essere risolti, fatica, lavoro, senso di responsabilità, sacrifici. Credere di risolverli con atti di violenza è assurdo. La violenza è agli antipodi di quella generosa forma di ribellione che anima la gioventù contro ogni ingiustizia e che oggi si chiama contestazione, ma che sotto nomi diversi è vecchia quanto il mondo.
Rivolgo un saluto affettuoso a tutti i giovani che nelle scuole, negli uffici, nei campi, nelle fabbriche, preparano il mondo di domani. Ma un particolare appello desidero rivolgere ai giovani studenti. Se è vero che esistono gravi problemi della scuola che devono essere affrontati e risolti, gli studenti per parte loro potranno contribuire a creare un mondo più conforme ai loro ideali se ascolteranno i loro insegnanti e si piegheranno sui libri per studiare e conoscere. Infatti solo la conoscenza del mondo, che si ottiene con lo studio delle dottrine conquistate dal genio umano, ci mette in condizioni di trasformarlo.
E ancora ai giovani studenti vorrei ricordare quanto sarebbe pericolosa una frattura fra loro e i loro insegnanti. Da antico insegnante, che visse diciannove secoli or sono, viene un ammonimento sul quale tutti i giovani studiosi dovrebbero riflettere: "Gli scolari debbono amare i loro insegnanti non meno di quanto debbono amare i loro studi. Essi debbono considerare gli insegnanti come i genitori, non dei loro corpi, ma delle loro menti". E a questo punto Quintiliano dà al suo ammonimento un profondo significato sul quale richiamo l'attenzione di tutti i giovani studenti: "Questa devozione filiale dell'allievo per il suo maestro giova enormemente ai suoi studi".
In conclusione, ogni passo innanzi nel nostro Paese non può essere che il risultato di un approfondimento dei valori democratici, dei valori di libertà, dei valori di giustizia. E quanto più la vita morale diventerà intensa, tanto più la strada per risolvere i problemi del nostro Paese potrà essere percorsa senza esitazioni e nella sostanziale concordia di tutti.
Un passo innanzi è stato fatto nel corso del 1970 con la elezione dei Consigli regionali delle Regioni a statuto ordinario.
I Consigli regionali appena eletti si sono messi al lavoro per approntare i rispettivi statuti, alcuni dei quali sono stati già presentati per l'approvazione al Parlamento. Ecco dunque un altro passo avanti per l'attuazione della Carta Costituzionale. Ed è anche questa una grande conquista democratica, perché l'entrata in funzione delle Regioni rappresenta un accrescimento della partecipazione dei cittadini alla gestione della cosa pubblica, e cioè un'ulteriore e concreta estrinsecazione della sovranità popolare.
E io qui voglio esprimere l'augurio che le Regioni - tanto quelle già funzionanti quanto le nuove - sappiano essere appunto questo: una palestra di libertà perché, nel rigoroso rispetto dell'articolo 5 della Costituzione, secondo cui la Repubblica è "una e indivisibile", realizzino appieno le legittime autonomie e vengano incontro ai bisogni, alle attese, alle speranze dei cittadini.
Italiani,
anche all'inizio di quest'anno domina su tutti i problemi quello della pace, evocato ancora una volta dall'alta parola del Sommo Pontefice.
La guerra oggi non sarebbe più, come diceva il Clausewitz, una politica continuata con mezzi diversi; la guerra oggi segnerebbe la distruzione e la fine dell'umanità.
Proprio nell'ottobre di quest'anno ricorreva il venticinquesimo anniversario di fondazione dell'Organizzazione delle Nazioni Unite. Nel messaggio che rivolsi il 24 di quel mese a tutti voi, dicevo fra l'altro che a un quarto di secolo dalla costituzione dell'ONU si poteva certo discutere se i principi per cui essa era sorta, vale a dire un complesso di regole di convivenza internazionale atte a salvaguardare la pace e la sicurezza, atte a sviluppare relazioni amichevoli tra le Nazioni e a promuovere il rispetto dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali fossero stati tradotti in atto nelle diverse congiunture della storia frattanto trascorsa. Ma aggiungevo non potersi minimamente dimenticare che solo nell'applicazione di quei principi, nelle fedele e puntuale osservanza di essi, riposa la sola, unica speranza di salvezza del mondo.
Altro motivo di speranza è il consolidarsi dell'Europa democratica con l'integrazione della Gran Bretagna, cosa a cui guardiamo come a un traguardo fondamentale di equilibrio del mondo e di pace nella giustizia.
Anche quest'anno ho cercato ho cercato di tracciare uno schematico bilancio del '70 e di suggerire le grandi linee di un esame di coscienza collettivo, considerando soprattutto ciò che deve essere fatto nell'immediato futuro.
Questo è l'ultimo discorso di fine anno che io rivolgo a voi nel corso del mio settennato, che avrà termine il 29 dicembre 1971. Per il 1972 un altro Presidente della Repubblica, eletto dal Parlamento e dai rappresentanti delle Regioni, si rivolgerà a voi con lo stesso animo con cui mi rivolgo io. Vorrei a questo proposito accennare all'assurdità di coloro che vedono nel trapasso di poteri da uno a un altro Presidente e nel periodo che lo precede non sappiamo quali complicazioni e quali inconvenienti per il Paese. Sia ben chiaro invece che nulla è più limpido, nulla più democratico nella Repubblica, che l'elezione di un nuovo Presidente. Questa è l'essenza vera delle istituzioni democratiche che hanno come fondamento un'unica sovranità, quella del popolo, sovranità di cui legittimi interpreti sono i parlamentari.
In questa visione delle cose si sostanziano gli auguri che cordialmente rivolgo a tutti voi e a ciascuno di voi; auguri di serenità, di gioia o di conforto, in una parola auguri di bene.
Che il nuovo anno sia portatore di tutto questo per voi, per le vostre famiglie e per quella grande e alta realtà che tutti ci trascende e insieme ci comprende: la nostra cara Patria, l'Italia.
Nel nome di questa sacra realtà colgo l'occasione in questo mio ultimo messaggio di fine anno per esprimere la mia infinita gratitudine al popolo italiano che mi hanno illuminato con la sua bontà, mi ha sorretto con la sua cordiale simpatia, mi ha guidato con il suo amore per la giustizia.
Viva la Repubblica!
Viva l'Italia!