25 aprile, anche la città di Perugia ha celebrato la festa della liberazione

Anche la città di Perugia, come tutti gli altri Comuni d’Italia, ha festeggiato nella giornata di oggi, 25 aprile, la Festa della Liberazione. Il consueto e tradizionale programma è partito dal Civico Cimitero dove le Autorità civili e militari presenti hanno deposto le corone di alloro al sacello dei caduti e sulle tombe delle medaglie d’oro della Resistenza  dove, grazie al progetto “memoria digitale” hanno potuto ascoltare le storie dei personaggi illustri: tra di essi il capitano di Fregata Marcello Pucci Boncampi, il magistrato Luigi Severini, il tenente Rodolfo Betti, il partigiano Mario Grecchi, il partigiano Primo Ciabatti, il senatore Armando Fedeli, il deputato Mario Angelucci, Gino Scaramucci, l’ex sindaco Ugo Lupattelli.

Presenti, tra gli altri, il sindaco Andrea Romizi, gli assessori Luca Merli, Gabriele Giottoli, Cristina Bertinelli, Margherita Scoccia, il presidente Nilo Arcudi, il prefetto Gradone, il questore Bellassai, il sottosegretario al ministero dell’Interno Prisco, il presidente dell’assemblea legislativa Marco Squarta, il vice presidente della giunta regionale Morroni, la consigliera provinciale Erika Borghesi, l’eurodeputata Camilla Laureti, numerosi consiglieri comunali di maggioranza ed opposizione, le associazioni (Bersaglieri, invalidi di guerra, partigiani),

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Le celebrazioni si sono spostate poi in Borgo XX Giugno, davanti al poligono di tiro, dove è avvenuta la deposizione di corone di alloro sulla lapide in ricordo dei nove patrioti fucilati dai nazi-fascisti nel 1944.

Qui il sindaco Andrea Romizi ha preannunciato, come di consueto il suo discorso.

“Oggi ha esordito – con la necessità del richiamo ai valori della libertà e del ripudio della dittatura e del fascismo che richiede anche il tempo in cui viviamo, la memoria va al 25 aprile 1945, all’epoca breve, per dirla con Dante Magnini, «che vide morire una società e sorgerne un’altra», in un’Italia «mai così povera e mai tanto ricca».

Ricca di cosa, se ancora era cosparsa di macerie fumanti? Ricca di volontà, ricca di sete di riscatto, dopo il buio del Ventennio e delle leggi razziali, ricca di desiderio di ricostruzione. Quando giunse la definitiva Liberazione e la fine della guerra, quel desiderio animava già da quasi un anno, dal fatidico 20 giugno 1944, la nostra Perugia. Una città che, nella «estenuante vigilia», l’avvocato Magnini descrive con un affresco dolorosissimo: «alquanto squallida», caratterizzata da «ripari antiaerei sui maggiori monumenti», «Pinacoteca e musei vuoti: le opere d’arte messe in cassoni e nascoste. I lampioni e i vetri dipinti di blu. In parecchie finestre i vetri rotti erano sostituiti da cartoni. Sopra molti tetti, dipinte grandi croci rosse». E poi il coprifuoco, la paura, la povertà, l’oscuramento totale.
Casualmente mi è capitato di rileggere queste pagine intense, tessute di ricordi, tra i quali quello di Pinacoteca e musei vuoti, in una stagione – quella che viviamo – di loro straordinaria vitalità, nella quale al contrario Galleria e musei civici si presentano pieni, pienissimi. La Perugia di allora, la Perugia dei mesi prima della Liberazione e prima della fine della guerra è perfino difficile da immaginare, se rapportata alla città di oggi: con il ritorno di tanti studenti, con migliaia di turisti per il quinto centenario dalla morte di Pietro Vannucci, per la grande mostra in Galleria, per il Festival del Giornalismo appena conclusosi e la prospettiva di una storica edizione di Umbria Jazz. È difficile immaginare la Perugia di allora descritta da Magnini. Eppure questo è stato. E quella realtà fatta di macerie, distruzione e indicibili sofferenze ancora oggi viene vissuta da popolazioni in tanti luoghi del nostro pianeta: l’Ucraina nel cuore dell’Europa, il Sudan, le tante aree con conflitti in corso o situazioni di crisi.

Lo scarto profondo tra la Perugia di oggi e quella di allora ci porta a riflettere su come la guerra e la mancanza di libertà offendano insieme alla persona umana anche la bellezza e la cultura. Questo aspetto fu ben riconosciuto da Fernanda Maretici – prima donna eletta nel consiglio comunale di Perugia nel 1946, assessore alla Scuola donna di grande tempra a cui a breve dedicheremo una targa all’interno della nuova Biblioteca degli Arconi – che ci ha lasciato sul tema un pensiero forte, da non dimenticare: «Il razzismo vero è la privazione della cultura».

Il pensiero della Maretici non è solo un’apparente provocazione. La storia ci insegna che in mancanza della cultura a vincere sono prevaricazione e crudeltà. Pensiamo alla violenza della censura fascista e al portato delle vergognose leggi razziali che intervennero anche nel mondo delle arti, della cultura, della scuola e dell’università, con l’espulsione di professori e alunni ebrei.

Per i bambini coinvolti fu quello un trauma di proporzioni enormi. Straziante al riguardo la commossa testimonianza rilasciata pochi anni fa da Piero Terracina agli studenti delle nostre scuole. Di Terracina mi colpì il fatto che nel suo racconto, nonostante l’esperienza inenarrabile nel campo di sterminio e le atrocità patite dalla sua famiglia, una particolare emozione si colse sul suo volto proprio quando ebbe a soffermarsi sulla ferita profonda causatagli dall’abbandono forzato della scuola. Ci raccontò come da bambino, il 12 novembre del ‘38, tra l’altro giorno del suo decimo compleanno, entrò in classe e la sua insegnante, fatto l’appello, gli chiese di uscire. Sconvolto e disperato le domandò, senza ricevere risposta, cosa avesse fatto e si chiese, tra sé, cosa sarebbe stato della sua vita senza lo studio. Fu un dolore incomprensibile e lacerante. Compagni di scuola e di gioco, relative famiglie e quella insegnate che pure credeva essergli affezionata scomparvero, voltandogli per sempre le spalle. Uno dei momenti più tristi e bui nella storia del nostro Paese, di cui ancora oggi provare profonda vergogna.

Ci fu il male, certo, ma ci fu anche il bene, che va riconosciuto, ricordato e additato come esempio. Ci fu una vera e propria filiera del bene, mossa solo dalla volontà di aiutare il prossimo, senza tornaconto. Ci fu una filiera del bene a cui bisogna guardare con gratitudine e speranza.

Comprendiamo allora quanto sia prezioso il lascito del 25 aprile, da vivere sempre e da non dimenticare mai. Riconoscenti per quanto abbiamo ricevuto, dobbiamo rivolgere il nostro pensiero, il nostro sguardo, ai protagonisti di quella stagione, ai protagonisti di gesta eroiche in favore della vita, dell’uomo e della libertà.

In tutto il Paese vi fu una reazione diffusa: le formazioni partigiane; il contributo che alla Resistenza diedero le forze armate italiane; i giovani soldati, provenienti da tante parti del mondo, caduti per liberarci dal giogo nazifascista; gli operai che scioperarono nelle fabbriche, gli intellettuali che diffusero clandestinamente le idee di libertà, le donne che diedero vita a una vera e propria rete di sussistenza per partigiani, perseguitati e combattenti.

A loro – ha continuato Romizi – che ancora oggi ci sollecitano al valore e alla speranza, la nostra gratitudine e il nostro impegno a tenere vivo quello straordinario esempio di coraggio e umanità!

Claudio Pavone, autore, com’è noto, di lavori storiografici fondamentali sulla Resistenza, in quell’atteso 25 aprile si trovava a Milano con i combattenti per la libertà. Di quel giorno ricorda la strana convivenza «tra pulsione di festa e spettacolo di morte». Ma a prevalere fu la gioia per la libertà riconquistata, per la caduta di quanto rimaneva del fascismo, per la fine della Guerra mondiale.

Realmente il 25 aprile segnò la fine di un’epoca e l’inizio di una stagione di ricostruzione al tempo stesso materiale e immateriale, fisica e concreta ma anche morale e civile. Quello sforzo, avviato oramai quasi 80 anni fa, merita di essere rinnovato. La liberazione è stata figlia di quei sentimenti di unione che, abbiamo visto, possono cambiare il corso della storia. Gli stessi che dobbiamo rafforzare oggi per superare la disgregazione sociale, l’isolamento, le differenze che si trasformano in muri, il disinteresse per la cosa pubblica, il cinismo di un’epoca in cui si è persa l’empatia. Con l’urgenza che si impone nell’affrontare le gravi incertezze date dall’instabilità della comunità internazionale, dalle disuguaglianze sociali, territoriali e di genere e dalle crisi che si susseguono.

Nel mezzo di una fase tanto difficile, il 25 aprile deve continuare a orientarci e indirizzarci, con il suo portato più maturo: la nostra Carta costituzionale. Una primavera per il nostro Paese. Una stagione nuova faticosamente conquistata. Perché sarà proprio per merito della Costituzione che l’Italia comincerà a parlare il linguaggio della democrazia. Un linguaggio bellissimo che racconta di uguaglianza, di dignità, di libertà, di pace, di giustizia sociale. Il linguaggio della Repubblica.

Fare memoria di tutto ciò che è stato – ha concluso il sindaco – è un monito sempre attuale, da rinnovare. E con la memoria torna l’esigenza di conoscere a fondo la Storia, di non sminuire quello che è stato con battute che riducono il senso della tragedia di quella stagione, di cogliere in pieno il valore di quella eredità. L’Italia che abbiamo ereditato con la libertà e con la nostra Costituzione imperniata sull’antifascismo è l’Italia di cui dobbiamo essere più fieri e convinti custodi”.

Il sindaco ha salutato ed accolto con affetto e gratitudine Mirella Aloisio, partigiana, che ha portato il suo ricorso della Liberazione ai tanti cittadini presenti.

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Le celebrazioni si sono concluse in via Masi con la deposizione di una corona di alloro al Monumento dell’Ara Pacis in memoria di tutti i Caduti in guerra.