Distinguersi per non estinguersi: storia della “Fenice” che vola senza padroni

di Dario Tomassini

Le scatole di panettone passano di mano in mano mentre gli auguri rimbalzano nella stanza. Quando le flûtes si scontrano, le perle dello spumante si increspano velocemente. A Natale manca un pugno di giorni, ma i dipendenti di Fenix Pharma, nell’ufficio alla periferia Sud di Roma, hanno un altro motivo per festeggiare: la loro cooperativa, unica in Italia nel settore farmaceutico, saluta il 2016 con un fatturato di otto milioni. Una cifra irrisoria rispetto ai ricavi monstre di Big Pharma, certo, ma «se penso agli inizi, è come aver scalato il K2 senza ossigeno» dice Daniela Angheri, co-fondatrice dell’azienda, ora nel CdA.

Fenix Pharma, nomen omen, è nata dalle ceneri di Warner Chilcott, multinazionale americana che ha lasciato il mercato farmaceutico in Europa dopo una breve sortita. «Nel 2009 Warner ha comprato il ramo farmaceutico europeo di Procter & Gamble, pur sapendo che il brevetto di punta (Actonel, un farmaco per l’osteoporosi ndr) sarebbe scaduto nel 2011, perdendo i 2/3 del mercato. Anche noi, 550 dipendenti, facevamo parte del pacchetto» dice Gianni Paolucci, responsabile commerciale di Fenix. Ad aprile 2011 Warner scrive ai dipendenti annunciando che avrebbe ristrutturato l’azienda. Una seconda lettera, spedita dall’altra sponda dell’Atlantico qualche settimana dopo, comunica la chiusura dell’attività in Europa. Nelle procedure di licenziamento, come elemento di crisi, viene indicata la scadenza del brevetto; eppure, già all’atto d’acquisto, tutti sapevano che quel prodotto sarebbe diventato un generico nel 2011. «Procter non ama stare sulle pagine dei giornali, ha preferito farci licenziare da qualcun altro. Così ha affidato il compito di chiudere il ramo farmaceutico ai manager della Warner in cambio di una quota di stock options» dice Daniela. Una dichiarazione che trova almeno un riscontro: Simona Falciai, general manager di P&G Europa dal 2007 al 2009, è rimasta alla guida di Warner Chilcott fino al capolinea.

L’azienda chiude a luglio 2011, lasciando a casa 160 persone solo in Italia. Tra questi, però, qualcuno inizia a pensare ad una rivincita e rilancia. Fenix nasce da un’idea di Gianni Paolucci, già direttore commerciale in Warner, che riesce a coinvolgere quattro ex colleghi licenziati dall’azienda americana. La prima sala riunioni viene allestita tra i tavoli di un bar della Montagnola, Roma Sud. A settembre, dopo appena due mesi, si aggiungono altri 30 colleghi tra i 160 in mobilità. «All’inizio ognuno ha messo 10mila euro di quota capitale e 25mila di prestito sociale. Era una parte consistente della liquidazione, ma con la cooperativa eravamo sicuri di riprenderci il nostro lavoro» dice Gianni. Il gruzzolo iniziale è servito per acquistare la prima tranche della licenza del farmaco (240mila euro) e una scorta di 50mila pezzi. «Abbiamo deciso di ripartire da un medicinale per l’osteoporosi che avevamo venduto per dieci anni e conoscevamo bene. Il prodotto conta molto, ma ancor più fa l’esperienza: i medici ci conoscevano da tempo e hanno creduto in noi» dice Daniela.

Fenix Pharma rappresenta un caso anomalo di workers buyout, ovvero l’acquisizione o il salvataggio di un’impresa da parte dei dipendenti che vi hanno lavorato. «Tra il 2007 e il 2013, gli anni più duri della crisi, in Italia si è passati da 81 workers buyout a 122, ma il caso di Fenix è unico. La Warner era un sacco vuoto senza nulla da comprare, ma loro hanno riacquistato la cosa più importante: il capitale umano» afferma il professor Carlo Borzaga, presidente di Euricse (Istituto europeo di ricerca e impresa cooperativa). La Lega delle cooperative ha creduto nel progetto ed è entrata nel capitale aziendale con 300mila euro; altri 200mila sono arrivati dal fondo di investimento istituzionale Cfi (Cooperazione finanza impresa). Garanzie che hanno facilitato l’accesso al credito. Partire, però, non è stato facile: «Il primo bilancio si è chiuso con un passivo di mezzo milione. Per 24 mesi abbiamo fatto contratti a progetto: tutti a 1,200 euro al mese, dal direttore commerciale all’informatore. Dal 2014, invece, abbiamo riconquistato il contratto dei chimici a tempo indeterminato» dice Salvatore Manfredi, presidente della cooperativa.

Fenix Pharma, oggi, è il fiore all’occhiello di Legacoop con 45 soci, una cinquantina di agenti e 5 amministrativi. Il modello cooperativo, in Italia, ha risposto meglio alla crisi rispetto alle aziende private. I dati dell’ultimo rapporto Euricse sull’economia cooperativa testimoniano che, tra il 2009 e il 2013, le cooperative in Italia hanno assunto più di 98mila dipendenti. Nello stesso periodo le aziende private hanno bruciato 630 mila posti di lavoro. «Dai nostri studi risulta che le cooperative sono disposte a sacrificare gli utili per incrementare o almeno non ridurre la produzione» afferma il professor Borzaga. Infatti, durante la crisi, queste società hanno gravato meno delle aziende private sugli ammortizzatori sociali e hanno generato reddito. Fenix produce 28 prodotti, quasi tutti in Italia. «Dalla

Polonia acquistiamo solo qualche integratore, ma abbiamo deciso di non produrre in Cina, anche se avremmo risparmiato il 30 %» dice Gianni. E nei prossimi due anni, la Fenice, sogna di volare ancora più in alto, raggiungere un fatturato di 15 milioni e assumere altri giovani informatori. «Abbiamo dimostrato che si può combattere anche contro Big Pharma sul piano commerciale, ma la sfida per il futuro è produrre qualcosa di nostro. Ancora non abbiamo risorse sufficienti da reinvestire in ricerca e sviluppo» spiega Daniela. Ma l’innovazione farmaceutica, nel nostro Paese, sta riemergendo dopo anni di crisi: gli investimenti in ricerca e sviluppo, infatti, sono schizzati da 1,240 milioni di euro del 2010 a 1,415 del 2015. «La spesa in innovazione per addetto vale tre volte la media degli altri comparti. Nel 2016 – afferma Massimo Scaccabarozzi, presidente di Farmindustria – la farmaceutica italiana ha superato quota 30 miliardi, con una crescita tendenziale del 5 %. Adesso vogliamo applicare per primi il nuovo regolamento Ue sulla ricerca e puntare sulla rivoluzione 4.0».

 

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